ARCHIVES OF sexology
CENTRO STUDI INTERNAZIONALI - RESEARCH AND STUDY PAPERS
2019
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Educazione sessuale e adolescenti: il caso dei disabili mentali
By Prof. Antonio Virgili
© Copyright by Prof. Antonio Virgili, 2019
By Prof. Antonio Virgili
© Copyright by Prof. Antonio Virgili, 2019
Il riconoscimento che il tema della sessualità coinvolga pure le persone con disabilità è stato affrontato nel 2006 dalla Convenzione Internazionale dei diritti delle persone disabili (CRPD)[1]. Tale Convenzione fu lo sviluppo, nel dopo Guerra Fredda, delle “Norme standard sulle pari opportunità delle persone con disabilità”, approvate a New York il 20 dicembre 1993 per le quali l’Italia aveva avuto un ruolo propulsore importante. Della Convenzione sembra di particolare rilievo il punto “e)” del Preambolo: “Riconoscendo che la disabilità è un concetto in evoluzione e che la disabilità è il risultato dell’interazione tra persone con minorazioni e barriere attitudinali ed ambientali, che impedisce la loro piena ed efficace partecipazione nella società su una base di parità con gli altri.” Tale punto costituisce la premessa generale per comprendere per quale motivo sia opportuno ed utile porre il problema di una informazione adeguata su emozioni e sessualità anche per gli adolescenti con disabilità mentali. L’Organizzazione delle Nazioni Unite ha poi sostenuto il diritto, per le persone disabili, alla procreazione ed il diritto ad una loro maternità e paternità. La stessa Organizzazione Mondiale della Sanità ha affermato che “la salute sessuale è l’integrazione degli aspetti somatici, affettivi, intellettuali e sociali dell’essere sessuato, allo scopo di pervenire ad un arricchimento della personalità umana, della comunicazione e dell’amore”. Questo postulato fa riferimento alla possibilità che ogni persona, con o senza disabilità, possa essere capace di vivere appieno la propria sessualità senza avvertire e vivere sentimenti di vergogna o di colpa che, inevitabilmente, porterebbero a compromettere le basi per ogni tipo di relazione, e al contempo le basi per ogni tipo di relazione sessuale. Da tali premesse generali deriva l’inevitabile importanza anche di una informazione ed educazione alla sessualità, che assume valore strategico generale nella popolazione durante l’adolescenza, cioè quel periodo della vita nell’arco del quale i segnali e le spinte verso la sessualità cominciano a manifestarsi con maggiore intensità, ed utile rilievo può avere per gli adolescenti con disabilità che, a causa di qualche deficit, necessitano di specifica attenzione non solo per consentire loro un miglioramento dell’autonomia personale ma anche per migliorare il loro stato complessivo di benessere, grazie ad una maggiore percezione del proprio corpo e ad una relazionalità non preclusa.
In Italia l’educazione alla sessualità, tempo addietro considerata una proposta minoritaria di gruppi o persone guardate quasi con sospetto, appare oggi, almeno da un punto di vista teorico, un tema “quasi normale”. Ad esempio l’Istituto Superiore della Sanità, in una delle pagine del suo portale dedicate alle politiche sanitarie, illustra brevemente un progetto in corso in una area regionale italiana, in materia di educazione affettiva e sessuale, progetto rivolto agli studenti (dell’ultimo anno delle medie di primo grado e delle secondarie) con lo scopo di “promuovere benessere e competenze nella sfera affettiva e sessuale”. Se la realtà coincidesse con tale indizio l’Italia sarebbe probabilmente un Paese che cura con maggiore attenzione le nuove generazioni ed al passo con gli sviluppi teorici e giuridici di una parte dei suoi ricercatori, purtroppo però si tratta di un evento limitato che corrisponde più ad una eccezione che alla situazione prevalente. Infatti, nella maggior parte delle scuole italiane tali contenuti appaiono solo in modo sporadico, su iniziativa di singoli e, per evitare la ancora scottante parola “sessualità” si usa la locuzione di “educare all’affettività”, locuzione che, se presa in senso letterale, risulterebbe qualcosa di potenzialmente allarmante e dai richiami distopici. In molti casi, parlare di sessualità nell’ambito della formazione dei più giovani risulta tuttora difficile, anche se stanno moltiplicandosi le iniziative. Pure, il buon senso dovrebbe far comprendere che una maggiore informazione aiuta a prevenire i rischi, mentre l’ignoranza li accresce e ne aumenta i potenziali danni[2]. In questo contesto generale relativo alla mancata formazione degli adolescenti, la situazione degli adolescenti che presentano disabilità intellettive non è migliore, sebbene il fatto che essi siano seguiti abitualmente da esperti in materie psicologiche ponga le premesse a che ad essi si dedichi, almeno in teoria, una attenzione meno intrisa di luoghi comuni e moralismi di facciata. In prospettiva, il problema potrebbe invece diventare quale sia (o possa essere) l’orientamento prevalente, in un dato momento, nella comunità degli psicologi in materia di sessualità (e se esso sia distorto o meno), ma ciò esula dallo scopo di queste riflessioni.
Ipotizzare e progettare un percorso di informazione-educazione alla sessualità ed alle emozioni per degli adolescenti con disabilità lieve e media pone una serie di esigenze e di difficoltà generali, oltre quelle tecniche specifiche. Tra queste ultime, la prima è la variabilità riscontrabile tra i potenziali destinatari del corso che, sebbene raggruppabili attraverso classificazioni di livello di gravità, quali i parametri del DSM-5[3], possono presentare abbastanza ampie variabilità individuali. Alcuni tipi di disabilità portano le persone ad avere, ed a manifestare, una minore maturità sociale e relazionale ed anche difficoltà nel regolare le emozioni, ne scaturiscono maggiori necessità di individualizzare gli interventi da un lato, dall’altro di “misurare” i reali livelli di ciascuno rispetto all’altro. Tale variabilità, che coinvolge alcune funzioni cerebrali, si somma e non sostituisce quelle che di per sé un uditorio di adolescenti già può presentare. Poi c’è l’immagine che di tali persone prevale nella società, nelle norme giuridiche, in alcuni operatori e nei loro stessi familiari, una immagine che, per quanto mutata nel tempo, ancora tende ad appiattirsi nell’equazione “disabilità = patologia = persona malata” e quanto ne consegue, inclusa la rigidità tendenziale dei protocolli di trattamento. Un intervento utile richiede che si proceda anche “informando”, contestualmente, i familiari e quanti sono attorno a queste persone Attraverso la visione multidimensionale dell’ICF[4], che integra le componenti biologiche con quelle personali e sociali, si può meglio comprendere che cercare di migliorare l’autonomia del disabile anche nella sfera della sessualità non solo risponde ad un diritto ma può rivelarsi utile strumento per valorizzare alcune potenzialità della persona, per produrre miglioramenti relazionali, per migliorare alcune funzioni cerebrali[5]. Ѐ chiaro che nel caso di situazioni di disabilità, laddove siano menomate le “condizioni fisiche”, le “funzioni corporee” o le “strutture corporee”, saranno soprattutto i fattori contestuali personali ed ambientali, uniti alla partecipazione sociale del soggetto, a garantire gli ambiti di funzionamento maggiori. In effetti si può osservare che molte problematiche in ambito sessuale vissute dalle persone con disabilità non stiano tanto nella presenza di condizioni fisiche deficitarie, che ne limitano il “funzionamento”, quanto nell’interazione tra gli assi a matrice biologica ed organica, con quelli di natura contestuale ed ambientale. Non va trascurato che molti comportamenti sessualmente problematici (sessuali in senso lato) esibiti da persone con disabilità non sono infatti conseguenza diretta del deficit, ma trovano una parte delle loro radici in una famiglia e in servizi specialistici che non sono riusciti, non avendolo forse mai fatto, a favorire, per quella persona, dei comportamenti adulti che si avvicinino alla normalità.
Tale situazione è, almeno in parte, una conseguenza del diffuso processo di infantilizzazione, sempre molto presente quando si parla di persone con disabilità. Sia per iper-protezione familiare sia anche per delle caratteristiche che alcuni disabili hanno a causa di deficit presenti, essi sono spesso considerati – e/o trattati- come fossero dei bambini, qualsiasi sia la loro età, precludendo con ciò, in partenza, la possibilità di affrontare il tema della sessualità. Per tale motivo diversi studiosi hanno sottolineato come alcuni comportamenti adottati dai disabili stessi siano in realtà l’effetto e lo specchio del mancato passaggio all’età adulta, o di una trasformazione in adulti molto incompleta, o totalmente mancante, una carenza quindi nella crescita di quelle persone a causa, certamente in buona fede e per eccesso di protezione, di famiglie e servizi assistenziali che non sono riusciti a (o forse non hanno neppure tentato di) indirizzare quelle persone verso comportamenti più adulti. In questi casi è stata certo determinante la percezione che se non si è pienamente autonomi non si è, e non si può essere, adulti ma si resta come bambine/i o eterni/e ragazzi/e. D’altro canto, non cercare di favorire progressivamente l’autonomia potenzialmente raggiungibile ha accresciuto, o almeno mantenuto, la dipendenza. Un circolo vizioso, dunque, che spiega perché vadano “informati ed educati” anche i genitori e le persone che sono attorno ai giovani con disabilità.
Tornando ad esaminare gli aspetti limitanti che si possono incontrare in alcuni disabili di livello medio, si consideri che le funzioni corporee possono determinare delle limitazioni nella dimensione sessuale in relazione agli ambiti che ICF codifica come:
a) funzioni mentali;
b) funzioni genitourinarie e riproduttive;
c) funzioni neuro-muscoloscheletriche e correlate al movimento.
Le funzioni mentali prevedono le funzioni del cervello e comprendono sia le funzioni mentali globali come la coscienza, l’energia e le pulsioni, sia le funzioni mentali specifiche, come la memoria, il linguaggio e il calcolo. Si può pertanto far riferimento a limitazioni differenti che includono funzioni emozionali, funzioni pulsionali e funzioni cognitive di ordine superiore. La sessualità, facendo capo a una dimensione emotiva ed affettiva, oltre che corporea, può rappresentare un ambito di esperienza privilegiato nelle persone disabili, essendo legata a strutture sottocorticali solitamente meno compromesse dal deficit cognitivo. Allo stesso tempo è anche vero che, maggiori sono i deficit cognitivi, maggiori saranno le difficoltà nel poter esprimere una propria vita affettiva ed il proprio mondo emotivo. Infatti, in una parte delle persone con disabilità è facile osservare modalità di pensiero o fortemente autocentrate, o poco flessibili nella loro possibilità di modulazione, con parallele difficoltà nel comprendere prospettive altrui, se fortemente discostanti dalle proprie; ciò può far scaturire modalità relazionali inadeguate, nelle quali appaiono evidenti le difficoltà di autoregolazione emotiva e comportamentale. Altre difficoltà si possono incontrare nel linguaggio, nelle funzioni prassiche ed esecutive, nella citata regolazione emotiva e pulsionale. Queste possibili alterazioni, presenti in grado diverso, andrebbero monitorate almeno per grandi linee prima dell’inizio di un corso così da poter meglio tarare i contenuti sulle possibilità realistiche dei destinatari. Meno rilevanti risultano, secondo questa prospettiva, le limitazioni strettamente fisico-muscolari e dell’apparato genitale, posto che la sessualità della quale si parla non si limita e non si esaurisce alla componente motoria e meccanica, ma risponde al bisogno pulsionale con modalità sue proprie di scambio e di attivazione di aree erogene non necessariamente localizzate in area genitale[6]. Ѐ tuttavia chiaro che in presenza di un ritardo nello sviluppo dei caratteri sessuali secondari, soprattutto laddove l’eziologia del ritardo sia da ricondursi a fattori genetici (o anche ad altre patologie), si potrebbe parlare di una sessualità attenuata o potenziale, questo aspetto andrà considerato attraverso una ricognizione preventiva che consenta di tarare contenuti e proposte alle caratteristiche prevalenti degli interlocutori. In modo analogo, qualora i deficit cognitivi alterino fortemente l’espressione di una propria vita affettiva ed emotiva, si cercherà di orientare i contenuti ed il metodo proprio per migliorare tali aspetti, con percorsi di avvicinamento progressivo alla gestione delle emozioni e delle pulsioni. Altri casi problematici potrebbero essere quelli dello spettro autistico, con chiare difficoltà di comunicazione e con il possibile manifestarsi di comportamenti problematici relativi alla sessualità (assenza di autocontrollo, masturbazione in pubblico, ecc.). La presenza di questi casi induce a proporre comportamenti più idonei per la singola persona e probabilmente minore spazio per ipotesi troppo complesse o fuori della portata -in un dato momento- delle sue possibilità[7]. Sostanzialmente, questi sono esempi di quanto si debbano preventivamente (ed in itinere) analizzare le caratteristiche dei destinatari per evitare che l’intervento di educazione sessuale risulti totalmente, od in gran parte, avulso dalle caratteristiche e dai percorsi praticabili dai destinatari. Come ha affermato anche Loperfido[8], un’azione di educazione alla sessualità dovrebbe mirare ad aiutare a comprendere i messaggi corporei propri e del partner, a prendere coscienza della propria sessualità nella sua dimensione non solo fisico-corporea, a cogliere l’importanza della dimensione relazionale delle emozioni, del desiderio, del piacersi e del piacere, del contatto, della scansione dei momenti, del rispetto dell’altro. È opportuno, per un intervento educativo appropriato che, soprattutto nei casi di scarse capacità metacognitive, si favorisca un esercizio della sessualità non autocentrato e dettato solo dal proprio bisogno, ma pronto ad accogliere e mediare le esigenze individuali coordinandole con quelle del partner. Tutti questi aspetti inevitabilmente arricchiscono e migliorano la vita della persona.
Siccome in relazione alla sessualità, delle persone disabili ma non solo di esse, una azione importante (talvolta determinante) la svolge il contesto sociale, senza un qualche intervento sociologico sul contesto stesso l’azione educativa rischia di essere meno produttiva, ciò vale in particolare per dei giovani disabili che si trovano probabilmente a vivere in contesti sociali limitati (famiglia, assistenti, luogo di formazione, esperti). Ciò induce a proporre, in un eventuale progetto, azioni sia verso i familiari dei ragazzi che verso il loro ambiente abituale. Senza pretese eccessive, cercare di informare, e chiarire adeguatamente, familiari ed operatori circa il senso di una azione di informazione ed educazione alla sessualità, promuovere una visione diversa delle situazioni, porre le premesse affinché tale mutamento di visione perduri nel tempo, è molto importante.
Le resistenze dei familiari
Non appaia esagerato affermare che una attività di educazione alla sessualità, come prima accennato, implica spesso una altrettanto importante azione di informazione, o educazione che dir si voglia, anzitutto dei genitori degli adolescenti. Se è vero che con maggior frequenza i genitori chiedono indicazioni su problemi riguardanti i loro figli di fronte alla sessualità è altrettanto vero che spesso si deve constatare che quei problemi nascono in parte perché i genitori non hanno idee chiare su che cosa sia l’educazione sessuale. Per chi ha figli con disabilità la sessualità non è in genere una priorità, anzi spesso viene totalmente dimenticata, negata o si dà per scontato che non possa esserci sessualità avendo i figli ben altri problemi, oppure ciò è dovuto all’atteggiamento iperprotettivo verso di essi che comporta spesso una chiusura al tema. Sia le esperienze dirette in centri di assistenza che numerose ricerche hanno più volte indicato nell’atteggiamento dei genitori un ostacolo rilevante quando ci si trovi ad affrontare e proporre il tema della sessualità di persone con disabilità, in misura maggiore se essi sono adolescenti e, nel gruppo degli adolescenti, se sono di genere femminile. Timori, ansie, pregiudizi ma anche spesso semplicemente scarsa informazione, fanno sì che in alcuni casi i genitori si oppongano alla realizzazione di, e partecipazione a, un corso di educazione alla sessualità. Attivare un percorso in una situazione di forte conflittualità con le famiglie risulta però non solo poco produttivo ma potrebbe risultare deleterio per i più giovani che, dalla percezione del forte contrasto, potrebbero trarre sensazioni ed idee non corrette o realistiche, alimentando timori, scoraggiando la collaborazione e l’ascolto, ed altre conseguenze simili. A meno che non si tratti di adolescenti privi di relazione genitoriale, in tutti gli altri casi nei quali gli adolescenti vivono con i genitori o li frequentano abitualmente se ospitati in un centro di educazione diurno o situazioni analoghe, è utile coinvolgere preventivamente, o almeno contestualmente, le famiglie. Sostanzialmente sarebbe opportuno dedicare degli incontri ai genitori ed altri agli adolescenti. Una attenzione e disponibilità di massima delle famiglie è importante per lo svolgimento dell’attività ed anche per il mutamento di atteggiamento che si potrà registrare successivamente. Si deve quindi ribadire che i familiari debbano essere parte integrante di un eventuale progetto, o anche i primi destinatari delle attività di informazione e formazione. Avendo sempre presente l’interesse e la tutela del destinatario, cioè degli adolescenti, il loro sviluppo quanto più armonico possibile, una piccola o grande conquista di maggiore autonomia (ciò dipende ovviamente anche dal livello e tipo di disabilità), il riconoscimento delle potenzialità e della dignità della persona.
NOTE:
[1] Questa Convenzione è stata adottata il 13 dicembre 2006 con la risoluzione /RES/61/106.
[2] Giova ricordare che per pericolo si intende una “potenziale sorgente di danno”, il rischio è dato dalla probabilità che il pericolo si verifichi. Riducendo l’esposizione al pericolo si riduce anche il rischio di danno. Se una persona non è informata su cosa possa essere pericoloso e su come prevenire il pericolo, si espone inevitabilmente a rischi maggiori. La storia dimostra che non è negando l’esistenza della sessualità che se ne possono ridurre eventuali rischi connessi (infezioni, gravidanze, ecc.) poiché la natura della specie umana non risulta modificata da assunti astratti. Portando una analogia nel concreto, un coltello resta tale, quasi sempre utile ma potenzialmente anche idoneo all’omicidio, che ci piaccia o meno. Imparando a conoscerlo e ad usarlo quanto meno eviteremo di ferirci. Immaginare che siano “banditi i coltelli dal pianeta” appare ingenuo e fallace anche nelle fiabe, ad esempio nella fiaba la “Bella addormentata nel bosco” il Re bandisce tutti i fusi dal suo regno per evitare che la figlia possa pungersi, ma inutilmente. Oltretutto immaginare che degli adolescenti oggi possano evitare ogni tipo di contenuto erotico-sessuale che arriva dai mass media, dalla pubblicità, dalla società stessa, appare del tutto irrealistico, pur in situazioni di interazione sociale limitata. Il problema è se tali “brandelli” di informazione presi casualmente dalla società si vogliano considerare preferibili, più corretti ed utili alla crescita e maturazione degli adolescenti rispetto a brevi seminari o corsi di informazione ed educazione alla sessualità ed alle emozioni scientificamente basati.
[3] Il DSM è il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi mentali (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders), che è ora arrivato alla V edizione e revisione.
[4] International Classification of Functioning, Disability and Health, in sigla, ICF, è un sistema di classificazione della disabilità sviluppato dall'Organizzazione mondiale della sanità (OMS)
[5] Si pensi in proposito alle riflessioni di Le Doux in “Il sé sinaptico”, Raffaello Cortina, 2002.
[6] Si parla infatti di una sessualità in senso lato, non necessariamente limitata o centrata sulla genitalità. Questo approccio se è opportuno in generale lo è in misura maggiore per persone con disabilità.
[7] Si noti che per comportamento problematico si intende quello che può mettere a rischio la salute o l’interazione sociale della stessa persona con disabilità e che quindi produce effetti negativi anche per la sua autonomia.
[8] Loperfido E., La sessualità dell’handicappato psichico. In: Baldaro Verde, J., Go-vigli, G., Valgimigli, C. (a cura di), La sessualità dell’handicappato, Il Pensiero Scientifico, Roma, pp. 47-53, 1987
Prof. Antonio Virgili*
* Docente di Sessuologia e di Neurosociologia. Già docente di Psicologia sociale. Magistrato on. per i Minorenni
© By Antonio Virgili, 2019
In Italia l’educazione alla sessualità, tempo addietro considerata una proposta minoritaria di gruppi o persone guardate quasi con sospetto, appare oggi, almeno da un punto di vista teorico, un tema “quasi normale”. Ad esempio l’Istituto Superiore della Sanità, in una delle pagine del suo portale dedicate alle politiche sanitarie, illustra brevemente un progetto in corso in una area regionale italiana, in materia di educazione affettiva e sessuale, progetto rivolto agli studenti (dell’ultimo anno delle medie di primo grado e delle secondarie) con lo scopo di “promuovere benessere e competenze nella sfera affettiva e sessuale”. Se la realtà coincidesse con tale indizio l’Italia sarebbe probabilmente un Paese che cura con maggiore attenzione le nuove generazioni ed al passo con gli sviluppi teorici e giuridici di una parte dei suoi ricercatori, purtroppo però si tratta di un evento limitato che corrisponde più ad una eccezione che alla situazione prevalente. Infatti, nella maggior parte delle scuole italiane tali contenuti appaiono solo in modo sporadico, su iniziativa di singoli e, per evitare la ancora scottante parola “sessualità” si usa la locuzione di “educare all’affettività”, locuzione che, se presa in senso letterale, risulterebbe qualcosa di potenzialmente allarmante e dai richiami distopici. In molti casi, parlare di sessualità nell’ambito della formazione dei più giovani risulta tuttora difficile, anche se stanno moltiplicandosi le iniziative. Pure, il buon senso dovrebbe far comprendere che una maggiore informazione aiuta a prevenire i rischi, mentre l’ignoranza li accresce e ne aumenta i potenziali danni[2]. In questo contesto generale relativo alla mancata formazione degli adolescenti, la situazione degli adolescenti che presentano disabilità intellettive non è migliore, sebbene il fatto che essi siano seguiti abitualmente da esperti in materie psicologiche ponga le premesse a che ad essi si dedichi, almeno in teoria, una attenzione meno intrisa di luoghi comuni e moralismi di facciata. In prospettiva, il problema potrebbe invece diventare quale sia (o possa essere) l’orientamento prevalente, in un dato momento, nella comunità degli psicologi in materia di sessualità (e se esso sia distorto o meno), ma ciò esula dallo scopo di queste riflessioni.
Ipotizzare e progettare un percorso di informazione-educazione alla sessualità ed alle emozioni per degli adolescenti con disabilità lieve e media pone una serie di esigenze e di difficoltà generali, oltre quelle tecniche specifiche. Tra queste ultime, la prima è la variabilità riscontrabile tra i potenziali destinatari del corso che, sebbene raggruppabili attraverso classificazioni di livello di gravità, quali i parametri del DSM-5[3], possono presentare abbastanza ampie variabilità individuali. Alcuni tipi di disabilità portano le persone ad avere, ed a manifestare, una minore maturità sociale e relazionale ed anche difficoltà nel regolare le emozioni, ne scaturiscono maggiori necessità di individualizzare gli interventi da un lato, dall’altro di “misurare” i reali livelli di ciascuno rispetto all’altro. Tale variabilità, che coinvolge alcune funzioni cerebrali, si somma e non sostituisce quelle che di per sé un uditorio di adolescenti già può presentare. Poi c’è l’immagine che di tali persone prevale nella società, nelle norme giuridiche, in alcuni operatori e nei loro stessi familiari, una immagine che, per quanto mutata nel tempo, ancora tende ad appiattirsi nell’equazione “disabilità = patologia = persona malata” e quanto ne consegue, inclusa la rigidità tendenziale dei protocolli di trattamento. Un intervento utile richiede che si proceda anche “informando”, contestualmente, i familiari e quanti sono attorno a queste persone Attraverso la visione multidimensionale dell’ICF[4], che integra le componenti biologiche con quelle personali e sociali, si può meglio comprendere che cercare di migliorare l’autonomia del disabile anche nella sfera della sessualità non solo risponde ad un diritto ma può rivelarsi utile strumento per valorizzare alcune potenzialità della persona, per produrre miglioramenti relazionali, per migliorare alcune funzioni cerebrali[5]. Ѐ chiaro che nel caso di situazioni di disabilità, laddove siano menomate le “condizioni fisiche”, le “funzioni corporee” o le “strutture corporee”, saranno soprattutto i fattori contestuali personali ed ambientali, uniti alla partecipazione sociale del soggetto, a garantire gli ambiti di funzionamento maggiori. In effetti si può osservare che molte problematiche in ambito sessuale vissute dalle persone con disabilità non stiano tanto nella presenza di condizioni fisiche deficitarie, che ne limitano il “funzionamento”, quanto nell’interazione tra gli assi a matrice biologica ed organica, con quelli di natura contestuale ed ambientale. Non va trascurato che molti comportamenti sessualmente problematici (sessuali in senso lato) esibiti da persone con disabilità non sono infatti conseguenza diretta del deficit, ma trovano una parte delle loro radici in una famiglia e in servizi specialistici che non sono riusciti, non avendolo forse mai fatto, a favorire, per quella persona, dei comportamenti adulti che si avvicinino alla normalità.
Tale situazione è, almeno in parte, una conseguenza del diffuso processo di infantilizzazione, sempre molto presente quando si parla di persone con disabilità. Sia per iper-protezione familiare sia anche per delle caratteristiche che alcuni disabili hanno a causa di deficit presenti, essi sono spesso considerati – e/o trattati- come fossero dei bambini, qualsiasi sia la loro età, precludendo con ciò, in partenza, la possibilità di affrontare il tema della sessualità. Per tale motivo diversi studiosi hanno sottolineato come alcuni comportamenti adottati dai disabili stessi siano in realtà l’effetto e lo specchio del mancato passaggio all’età adulta, o di una trasformazione in adulti molto incompleta, o totalmente mancante, una carenza quindi nella crescita di quelle persone a causa, certamente in buona fede e per eccesso di protezione, di famiglie e servizi assistenziali che non sono riusciti a (o forse non hanno neppure tentato di) indirizzare quelle persone verso comportamenti più adulti. In questi casi è stata certo determinante la percezione che se non si è pienamente autonomi non si è, e non si può essere, adulti ma si resta come bambine/i o eterni/e ragazzi/e. D’altro canto, non cercare di favorire progressivamente l’autonomia potenzialmente raggiungibile ha accresciuto, o almeno mantenuto, la dipendenza. Un circolo vizioso, dunque, che spiega perché vadano “informati ed educati” anche i genitori e le persone che sono attorno ai giovani con disabilità.
Tornando ad esaminare gli aspetti limitanti che si possono incontrare in alcuni disabili di livello medio, si consideri che le funzioni corporee possono determinare delle limitazioni nella dimensione sessuale in relazione agli ambiti che ICF codifica come:
a) funzioni mentali;
b) funzioni genitourinarie e riproduttive;
c) funzioni neuro-muscoloscheletriche e correlate al movimento.
Le funzioni mentali prevedono le funzioni del cervello e comprendono sia le funzioni mentali globali come la coscienza, l’energia e le pulsioni, sia le funzioni mentali specifiche, come la memoria, il linguaggio e il calcolo. Si può pertanto far riferimento a limitazioni differenti che includono funzioni emozionali, funzioni pulsionali e funzioni cognitive di ordine superiore. La sessualità, facendo capo a una dimensione emotiva ed affettiva, oltre che corporea, può rappresentare un ambito di esperienza privilegiato nelle persone disabili, essendo legata a strutture sottocorticali solitamente meno compromesse dal deficit cognitivo. Allo stesso tempo è anche vero che, maggiori sono i deficit cognitivi, maggiori saranno le difficoltà nel poter esprimere una propria vita affettiva ed il proprio mondo emotivo. Infatti, in una parte delle persone con disabilità è facile osservare modalità di pensiero o fortemente autocentrate, o poco flessibili nella loro possibilità di modulazione, con parallele difficoltà nel comprendere prospettive altrui, se fortemente discostanti dalle proprie; ciò può far scaturire modalità relazionali inadeguate, nelle quali appaiono evidenti le difficoltà di autoregolazione emotiva e comportamentale. Altre difficoltà si possono incontrare nel linguaggio, nelle funzioni prassiche ed esecutive, nella citata regolazione emotiva e pulsionale. Queste possibili alterazioni, presenti in grado diverso, andrebbero monitorate almeno per grandi linee prima dell’inizio di un corso così da poter meglio tarare i contenuti sulle possibilità realistiche dei destinatari. Meno rilevanti risultano, secondo questa prospettiva, le limitazioni strettamente fisico-muscolari e dell’apparato genitale, posto che la sessualità della quale si parla non si limita e non si esaurisce alla componente motoria e meccanica, ma risponde al bisogno pulsionale con modalità sue proprie di scambio e di attivazione di aree erogene non necessariamente localizzate in area genitale[6]. Ѐ tuttavia chiaro che in presenza di un ritardo nello sviluppo dei caratteri sessuali secondari, soprattutto laddove l’eziologia del ritardo sia da ricondursi a fattori genetici (o anche ad altre patologie), si potrebbe parlare di una sessualità attenuata o potenziale, questo aspetto andrà considerato attraverso una ricognizione preventiva che consenta di tarare contenuti e proposte alle caratteristiche prevalenti degli interlocutori. In modo analogo, qualora i deficit cognitivi alterino fortemente l’espressione di una propria vita affettiva ed emotiva, si cercherà di orientare i contenuti ed il metodo proprio per migliorare tali aspetti, con percorsi di avvicinamento progressivo alla gestione delle emozioni e delle pulsioni. Altri casi problematici potrebbero essere quelli dello spettro autistico, con chiare difficoltà di comunicazione e con il possibile manifestarsi di comportamenti problematici relativi alla sessualità (assenza di autocontrollo, masturbazione in pubblico, ecc.). La presenza di questi casi induce a proporre comportamenti più idonei per la singola persona e probabilmente minore spazio per ipotesi troppo complesse o fuori della portata -in un dato momento- delle sue possibilità[7]. Sostanzialmente, questi sono esempi di quanto si debbano preventivamente (ed in itinere) analizzare le caratteristiche dei destinatari per evitare che l’intervento di educazione sessuale risulti totalmente, od in gran parte, avulso dalle caratteristiche e dai percorsi praticabili dai destinatari. Come ha affermato anche Loperfido[8], un’azione di educazione alla sessualità dovrebbe mirare ad aiutare a comprendere i messaggi corporei propri e del partner, a prendere coscienza della propria sessualità nella sua dimensione non solo fisico-corporea, a cogliere l’importanza della dimensione relazionale delle emozioni, del desiderio, del piacersi e del piacere, del contatto, della scansione dei momenti, del rispetto dell’altro. È opportuno, per un intervento educativo appropriato che, soprattutto nei casi di scarse capacità metacognitive, si favorisca un esercizio della sessualità non autocentrato e dettato solo dal proprio bisogno, ma pronto ad accogliere e mediare le esigenze individuali coordinandole con quelle del partner. Tutti questi aspetti inevitabilmente arricchiscono e migliorano la vita della persona.
Siccome in relazione alla sessualità, delle persone disabili ma non solo di esse, una azione importante (talvolta determinante) la svolge il contesto sociale, senza un qualche intervento sociologico sul contesto stesso l’azione educativa rischia di essere meno produttiva, ciò vale in particolare per dei giovani disabili che si trovano probabilmente a vivere in contesti sociali limitati (famiglia, assistenti, luogo di formazione, esperti). Ciò induce a proporre, in un eventuale progetto, azioni sia verso i familiari dei ragazzi che verso il loro ambiente abituale. Senza pretese eccessive, cercare di informare, e chiarire adeguatamente, familiari ed operatori circa il senso di una azione di informazione ed educazione alla sessualità, promuovere una visione diversa delle situazioni, porre le premesse affinché tale mutamento di visione perduri nel tempo, è molto importante.
Le resistenze dei familiari
Non appaia esagerato affermare che una attività di educazione alla sessualità, come prima accennato, implica spesso una altrettanto importante azione di informazione, o educazione che dir si voglia, anzitutto dei genitori degli adolescenti. Se è vero che con maggior frequenza i genitori chiedono indicazioni su problemi riguardanti i loro figli di fronte alla sessualità è altrettanto vero che spesso si deve constatare che quei problemi nascono in parte perché i genitori non hanno idee chiare su che cosa sia l’educazione sessuale. Per chi ha figli con disabilità la sessualità non è in genere una priorità, anzi spesso viene totalmente dimenticata, negata o si dà per scontato che non possa esserci sessualità avendo i figli ben altri problemi, oppure ciò è dovuto all’atteggiamento iperprotettivo verso di essi che comporta spesso una chiusura al tema. Sia le esperienze dirette in centri di assistenza che numerose ricerche hanno più volte indicato nell’atteggiamento dei genitori un ostacolo rilevante quando ci si trovi ad affrontare e proporre il tema della sessualità di persone con disabilità, in misura maggiore se essi sono adolescenti e, nel gruppo degli adolescenti, se sono di genere femminile. Timori, ansie, pregiudizi ma anche spesso semplicemente scarsa informazione, fanno sì che in alcuni casi i genitori si oppongano alla realizzazione di, e partecipazione a, un corso di educazione alla sessualità. Attivare un percorso in una situazione di forte conflittualità con le famiglie risulta però non solo poco produttivo ma potrebbe risultare deleterio per i più giovani che, dalla percezione del forte contrasto, potrebbero trarre sensazioni ed idee non corrette o realistiche, alimentando timori, scoraggiando la collaborazione e l’ascolto, ed altre conseguenze simili. A meno che non si tratti di adolescenti privi di relazione genitoriale, in tutti gli altri casi nei quali gli adolescenti vivono con i genitori o li frequentano abitualmente se ospitati in un centro di educazione diurno o situazioni analoghe, è utile coinvolgere preventivamente, o almeno contestualmente, le famiglie. Sostanzialmente sarebbe opportuno dedicare degli incontri ai genitori ed altri agli adolescenti. Una attenzione e disponibilità di massima delle famiglie è importante per lo svolgimento dell’attività ed anche per il mutamento di atteggiamento che si potrà registrare successivamente. Si deve quindi ribadire che i familiari debbano essere parte integrante di un eventuale progetto, o anche i primi destinatari delle attività di informazione e formazione. Avendo sempre presente l’interesse e la tutela del destinatario, cioè degli adolescenti, il loro sviluppo quanto più armonico possibile, una piccola o grande conquista di maggiore autonomia (ciò dipende ovviamente anche dal livello e tipo di disabilità), il riconoscimento delle potenzialità e della dignità della persona.
NOTE:
[1] Questa Convenzione è stata adottata il 13 dicembre 2006 con la risoluzione /RES/61/106.
[2] Giova ricordare che per pericolo si intende una “potenziale sorgente di danno”, il rischio è dato dalla probabilità che il pericolo si verifichi. Riducendo l’esposizione al pericolo si riduce anche il rischio di danno. Se una persona non è informata su cosa possa essere pericoloso e su come prevenire il pericolo, si espone inevitabilmente a rischi maggiori. La storia dimostra che non è negando l’esistenza della sessualità che se ne possono ridurre eventuali rischi connessi (infezioni, gravidanze, ecc.) poiché la natura della specie umana non risulta modificata da assunti astratti. Portando una analogia nel concreto, un coltello resta tale, quasi sempre utile ma potenzialmente anche idoneo all’omicidio, che ci piaccia o meno. Imparando a conoscerlo e ad usarlo quanto meno eviteremo di ferirci. Immaginare che siano “banditi i coltelli dal pianeta” appare ingenuo e fallace anche nelle fiabe, ad esempio nella fiaba la “Bella addormentata nel bosco” il Re bandisce tutti i fusi dal suo regno per evitare che la figlia possa pungersi, ma inutilmente. Oltretutto immaginare che degli adolescenti oggi possano evitare ogni tipo di contenuto erotico-sessuale che arriva dai mass media, dalla pubblicità, dalla società stessa, appare del tutto irrealistico, pur in situazioni di interazione sociale limitata. Il problema è se tali “brandelli” di informazione presi casualmente dalla società si vogliano considerare preferibili, più corretti ed utili alla crescita e maturazione degli adolescenti rispetto a brevi seminari o corsi di informazione ed educazione alla sessualità ed alle emozioni scientificamente basati.
[3] Il DSM è il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi mentali (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders), che è ora arrivato alla V edizione e revisione.
[4] International Classification of Functioning, Disability and Health, in sigla, ICF, è un sistema di classificazione della disabilità sviluppato dall'Organizzazione mondiale della sanità (OMS)
[5] Si pensi in proposito alle riflessioni di Le Doux in “Il sé sinaptico”, Raffaello Cortina, 2002.
[6] Si parla infatti di una sessualità in senso lato, non necessariamente limitata o centrata sulla genitalità. Questo approccio se è opportuno in generale lo è in misura maggiore per persone con disabilità.
[7] Si noti che per comportamento problematico si intende quello che può mettere a rischio la salute o l’interazione sociale della stessa persona con disabilità e che quindi produce effetti negativi anche per la sua autonomia.
[8] Loperfido E., La sessualità dell’handicappato psichico. In: Baldaro Verde, J., Go-vigli, G., Valgimigli, C. (a cura di), La sessualità dell’handicappato, Il Pensiero Scientifico, Roma, pp. 47-53, 1987
Prof. Antonio Virgili*
* Docente di Sessuologia e di Neurosociologia. Già docente di Psicologia sociale. Magistrato on. per i Minorenni
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